Dopo la battaglia: Pippo Delbono ritorna a Catania

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Pippo Delbono, lei torna a Genova mercoledì e giovedì al Teatro dell’Archivolto con due film, “Guerra e “La Paura” e uno spettacolo del 1986, “Il tempo degli assassini”. In “Guerra” lei dice in particolare che «L’Italia è un paese che fa schifo»: che cosa la fa arrabbiare di più?

«Veramente dico che l’Italia è un paese di m…. Viviamo nel mezzo di un’esplosione di paura, la crisi economica ha aperto la strada al razzismo, alla segregazione. È un degrado che parte dalla cultura, domina una televisione disumanizzata che è entrata nelle nostre vite come una dittatura, Pasolini lo aveva preannunciato. La televisione ci impone i modelli di bellezza, come dobbiamo vestirci, come dobbiamo comportarci. La risposta a chi è diverso è l’intolleranza, vogliamo solo essere pecore».

Un degrado tutto italiano?

«Il nostro è un paese razzista e fascista. È l’Italia cafonaccia e banalotta che dà del tu a tutti gli stranieri, magari uno è un avvocato e loro gli danno del tu. È un Paese attraversato dalla paura, da una malattia profonda radicata nella volgarità. L’altro giorno parlavo con i fratelli registi Dardenne, non ci credevano che il figlio di Bossi ha detto che le due cose da evitare sono “la droga e i culattoni”, che in un videogioco invitava a buttare a mare i clandestini. Non ci credevano. È un paese sprofondato nell’arroganza e nella volgarità».

Di chi è la responsabilità?

«È collettiva, è della cultura, è della sinistra che ha azzerato un percorso culturale. Nel 1954 al Festival di Venezia c’era Fellini con “La strada”, c’era Kurosawa e c’erano Visconti e Antonioni, ora chi c’è? Siamo lontani da quell’Italia lì».

Cosa può fare il teatro per riempire questo vuoto?

«Il teatro può essere un luogo dove ci guardiamo in faccia. Non credo nel teatro ideologico, la vera rivoluzione è il linguaggio, non tanto quello che si dice ma come si dice. Siamo abituati a guardare il Grande Fratello, Amici, il teatro invece spiazza, cambia il punto di vista, rimette in discussione, oggi come nel teatro antico, come in quello shakespiriano. A teatro riesci a vedere la bellezza dove prima non la vedevi, riesci a vedere lo scandalo, l’immoralità dove pensavi ci fosse moralità, la menzogna dove pensavi ci fosse sincerità, la violenza dove credevi ci fosse religione. Una parola di cui ormai non si capisce più il senso».

La religione ha perso il suo significato?

«Questo è un momento di maschere che cadono, viene fuori il marcio, la serpe che abbiamo dentro».

Nel film di Luca Guadagnino “Io sono l’amore” lei interpreta un arrogante industriale altoborghese. Come è stato interpretare questo ruolo “dall’altra parte”?

«È un ruolo coerente con tutto quello che ho fatto, sono molto lontano dalla psicologia dell’attore, ho lavorato sul corpo, sul modo di camminare, di guardare. Guadagnino mi ha voluto a tutti i costi, sul set ero elegantissimo e con il parrucchiere che mi aggiustava di continuo i capelli, alla fine mi hanno detto che avrei potuto benissimo essere così, la possibilità di essere arroganti, di essere stronzi, è in tutti noi. Anche nella mia professione c’è il rischio, sempre in giro per il mondo, i riconoscimenti, gli applausi, è importante lavorare contro tutto questo e rimanere con i piedi sulla terra. Io ci rimango, a volte mi dicono “ma hai visto che buco hai nella maglia, sembri un barbone”, ma è anche un modo per restare sulla terra, altrimenti non riesci più a guardare la realtà. Il film è andato molto bene all’estero, in Inghilterra, fra un mese lo presenteremo negli Stati Uniti, lì cercherò di andare con una maglia senza buchi».

Dove sarà nei prossimi mesi?

«Ora sono a Cracovia, poi in tournèe in Francia, a Lisbona, in Brasile, a New York per una mia personale. Ho tre progetti in corso che saranno pronti nel 2011, un film, un testo teatrale, un’opera, al teatro di Catania mi hanno dato carta bianca, fa un po’ paura».

A che cosa sta pensando?

«Mi interessa rimanere intorno a questo tempo così complesso, avvolto nell’orgia del potere, in cui si compie il sacrificio dell’essere umano. Però sto pensando a raccontare il “dopo la battaglia”, cosa succede quando hai toccato il fondo. Sarà la volta che farò contenta mia madre che mi chiede sempre “Pippo, quando farai qualcosa di gioioso?”. Non mi piace la speranza, è ingenua, preferisco la fede spirituale e non religiosa, la fede è più profonda, mettendola in atto produce dei cambiamenti. Proverò per la prima volta a vedere una possibilità di uscita».

Author: Redazione

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