Patrizi e Palazzi: si aprono per un giorno i palazzi storici di Catania.

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Catania è un contenitore di meraviglie.
Per un giorno si riaprono le porte di alcuni tra i più importanti palazzi nobiliari della città: Palazzo Manganelli (piazza Manganelli via Sangiuliano), Palazzo del Toscano (piazza Stesicoro), Palazzo Libertini-Scuderi (Via Etnea zona Borgo) e Palazzo Beneventano (Via San Gaetano alla Grotta zona piazza Stesicoro). Guarda la posizione dei palazzi sulla mappa di Catania.
Domenica 10 giugno 2012 sarà possibile visitare i meravigliosi interni di queste dimore, grazie ad un servizio di visite guidate, attivo dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 19.
I tour partiranno ogni 30 minuti da ciascun palazzo, dove sarà anche attivo un servizio di biglietteria che consentirà ai visitatori di scegliere da quale luogo iniziare il percorso.

Costo del biglietto complessivo di 10 euro, che comprende la visita guidata ai 4 palazzi e le degustazioni offerte dagli sponsor tecnici.
Ad arricchire l’evento saranno esposte le opere pittoriche di Benedetto Poma e le sculture di Gianni Sessa.

PATRIZI E PALAZZI, Itinerario delle dimore nobiliari
10 giugno 2012
visite guidate dalle ore 10 alle 13, dalle 16 alle 19
biglietto 10 euro 

Organizzazione di Alchimie d’arte, con il patrocinio del Comune di Catania e dell’ Archeoclub d’Italia
per ulteriori informazioni: alchimiedarte@gmail.com – tel. 340 0663011

 

 

Informazioni storiche dei palazzi

Palazzo Libertini Scuderi

Particolare soffitto Palazzo Libertini catania

Particolare affresco del soffitto di Palazzo Libertini Catania

Fu progettato nel 1875 dal giovanissimo architetto milanese Carlo Sada (1849-1924). Questi giunse a Catania dapprima come collaboratore del più anziano arch. Andrea Scala, per progettare e dirigere i lavori del Teatro Massimo Bellini, ma si rese ben presto autonomo rispetto al maestro. Divenne progettista di successo, molto richiesto dalle famiglie catanesi più facoltose, e rimase definitivamente a Catania, fino alla sua scomparsa. La redazione del progetto per la “Palazzina Raddusa” impegna l’Arch. Sada per un periodo piuttosto esteso, che inizia nell’aprile del 1875 e prosegue, per la redazione dei disegni esecutivi, fino al 1879. 
Nel 1907 il progetto dell’edificio, divenuto intanto “Palazzo Libertini”, è riportato in un album di disegni destinati alla pubblicazione sulla rivista “L’Edilizia Moderna”.
Sono gli anni in cui, nel pieno della temperie storico-critico-estetica del periodo romantico che permea per intero l’Ottocento, l’Architettura rivolge il proprio interesse alla rivisitazione degli stili e dei caratteri costruttivi del passato, i quali, attraverso differenti linguaggi e variegati binomi stile-funzione adottati per le varie tipologie di edifici pubblici e/o privati in ragione delle specifiche destinazioni d’uso-ora, vengono rivisitati e riproposti con un repertorio che spazia dal neoromanico e dal neogotico, attraverso il neorinascimento, il neo barocco ed il neorococò di gusto francese, fino al neoclassicismo del primo Ottocento.
E’ questo ciò che in Architettura viene definito “Eclettismo”, un linguaggio espressivo composito che, attingendo agli stili ed agli schemi decorativi del passato, li miscela e li declina in varie forme, rendendoli persino compresenti anche nel medesimo edificio.

Palazzo Libertini Scuderi fu commissionato al Sada dal cav. Giuseppe Paternò di Raddusa nel 1875 ed è l’unico palazzo in città che riecheggia nello stile il Rinascimento fiorentino, con un piano terra interamente rivestito da grosse bugne a guanciale, sovrastato da un piano primo intonacato in colore rosso-rosa antico. Successivamente, per un breve periodo fu proprietà del sig. Giuseppe Schininà, marchese di Sant’Elia; poi, nel 1901, fu acquistato dal Sen. Pasquale Libertini ed infine, nel 1941, dall’armatore Matteo Scuderi, i cui eredi lo detengono. Curiosamente lo stemma che compare sul fronte del portico antistante il giardino è quello della famiglia che possedette il palazzo per il periodo più breve, e cioè quello degli Schininà (una cometa sovrastante un giglio, su uno sfondo che sarebbe azzurro, se non fosse di pietra).
L’architetto milanese realizza, ubicato tra due vie principali della città, un volume che, per mezzo della simmetria e della regolarità dell’impianto compositivo, attesta sulla Via Etnea la severità del prospetto principale di rappresentanza, contrapposto ed alleggerito, sulla secondaria Via Caronda, per mezzo del loggiato ad ampie arcate al piano terra e del vuoto della terrazza sulla superiore elevazione, al di sopra della quale parapetto e cornice di coronamento occultano il piano in ammezzato con relativo terrazzo a livello.
Sicché dalle due elevazioni lungo la Via Etnea si passa alle quattro sulla Via Caronda, se si tiene conto anche del piano seminterrato che ospita alcuni servizi e le cantine.
Il prospetto principale si affaccia sulla Via Etnea, con un portone centrale e tre luci su ognuno dei due lati. Significativa la rinuncia alla realizzazione di botteghe al livello stradale ed ai proventi che da esse sarebbero derivati.
Le sette luci così ottenute si ripetono al piano primo, differenziate nei timpani, che si alternano nelle forme triangolari e ad arco. Quella centrale è arricchita da un balcone protetto da un grazioso parapetto con balaustre realizzate in pietra bianca. Le altre luci sono di fatto delle finestre in quanto non consentono di uscire all’aperto, ma si partono da terra e sono quindi anch’esse protette da una breve balaustrata. L’edificio si conclude in alto con un cornicione sostenuto da mensole a dentello, sormontato da un parapetto che nasconde alla vista la copertura in tegole.

Gli spigoli (vero quello sulla Via Cordaro, simulato l’altro), sono ben evidenziati con un gioco di bugne nella stessa pietra bianca, alternate a maggiore e minore estensione.
Al piano primo il Sada dispose gli ambienti di maggiore pregio allineati sulla Via Etnea, mentre sul retro, che si affaccia su un giardino confinante con la via Caronda, dispose gli ambienti minori o di servizio, a loro volta dotati di piano ammezzato. In conseguenza di ciò, sulla Via Cordaro, il prospetto mantiene lo stesso schema di quello presente sulla Via Etnea per metà della larghezza, per poi cambiare schema in corrispondenza degli ambienti di minore pregio.
Gli ambienti che si affacciano sulla Via Etnea sono cinque, tutti con funzione di rappresentanza e perciò riccamente decorati, sia alle pareti, sia ai soffitti. Il salone più grande è quello che corrisponde all’angolo con la Via Cordaro, dotato di una luce su quest’ultima strada e due sulla Via Etnea. Di grandi dimensioni anche il successivo vano, il secondo, dotato di due luci, tra cui quella che corrisponde al balcone principale. Il terzo, il quarto ed il quinto vano dispongono di una finestra ciascuna.
Dal portone sulla Via Etnea si accede ad un lungo androne che sfocia, dalla parte opposta, nel giardino prospiciente la Via Caronda. Lateralmente ad esso, sulla destra, è collocato lo scalone che conduce al piano primo e che consente di accedere, tramite uno spazio di disimpegno-guardaroba, sia all’appartamento, sia alla cucina non più in funzione e da qui ad un terrazza creata nell’incavo che presenta l’edificio sul lato di levante.
La terrazza poggia su un portico a tre luci ad arcate, sostenute da colonne, di cui quelle intermedie binate. Un gioco simile, ma con colonne dai capitelli più elaborati, si ripete sulle pareti che chiudono da tre lati la terrazza. Sul quarto lato essa si affaccia sul giardino sottostante, protetta da un’elegante balaustrata costituita da plinti rettangolari alternati a gruppi di quattro colonnine. Sui plinti centrali sono collocate quattro statue in terracotta, di provenienza lombarda, ad altezza naturale, raffiguranti le quattro stagioni.
In definitiva la facciata di levante, prospiciente la Via Caronda, benché meno visibile dal pubblico, è tutt’altro che una facciata secondaria, presentandosi anch’essa elegante e riccamente decorata, grazie anche al movimento determinato dal portico al piano terra, dalla sovrastante terrazza e dai due corpi di fabbrica laterali che si sporgono in avanti. I rivestimenti di questa facciata si ripetono uguali al piano primo (intonaco di color rosso antico), mentre il bugnato a guanciale di colore scuro utilizzato sulla Via Etnea è sostituito da un bugnato “a bugne piatte” color crema.

Lo scalone
Lo scalone principale del palazzo (non è il solo perché ne esistono altri due di servizio) è quello che conduce dal piano terra al piano primo e, data la notevole altezza tra i piani, esso consta di tre rampe.
E’ riccamente decorato in stile assolutamente classico. Le pareti offrono superfici rivestite con intonaco di gesso trattato magistralmente ad imitazione di marmi di varie tinte (nero, bianco di Carrara e giallo Siena), con disegni a riquadri. Sono minime le parti in marmo autentico.
In corrispondenza del piano primo (o piano nobile) il vano scala è in buona parte circoscritto da numerosi pregevoli infissi del tipo “a bussola” in legno e cristallo istoriato. Alcuni di essi sono presenti solo a scopo decorativo, in quanto di fatto non utilizzabili, ma riescono a portare un po’ di luce agli ambienti retrostanti. Tra un infisso e l’altro, con lo stesso metodo dell’imitazione del marmo, sono ricavate delle lesene (finte colonne a superficie piatta).
Al centro della parete che delimita il vano dello scalone dal terrazzo, campeggia una figura femminile in stucco ad alto rilievo, di grande eleganza, che rappresenta la Flora o la Primavera. Lo stile di quest’opera, che risente dell’influsso dell’Art Nouveau, più nota in Italia come “Stile Liberty”, fa ritenere che essa sia stata realizzata in una fase successiva.
Al di sopra della fascia occupata da questi infissi, interrotti dalle lesene, sono ricavati dei tableaux contenenti dei bassorilievi in stucco bianco, raffiguranti figure femminili, putti e temi mitologici.
Il soffitto del vano scala è anch’esso decorato a stucchi, nei colori bianco, grigio, azzurro e ocra chiara, con un grande riquadro al centro, riccamente lavorato a stucco con temi vegetali di tralci e fiori, contornato da una cornice a sua volta costituita da riquadri di minore dimensione.

Le decorazioni pittoriche dei saloni
E’ possibile ipotizzare che per le decorazioni degli interni del palazzo l’arch. Sada – il quale generalmente nelle sue opere programmava, con la collaborazione di esperte maestranze, anche l’apparato decorativo interno – sia per quanto attiene agli stucchi ed alle dorature a porporina d’oro zecchino, copiosamente presenti nei saloni di rappresentanza, sia per le volte dipinte, abbia fatto ricorso alle medesime figure di decoratori che in quegli anni con lui collaboravano per il teatro massimo “V. Bellini”, ovvero il triestino Andrea Stella per quanto riguarda gli stucchi e le dorature ed il fiorentino Ernesto Bellandi per gli affreschi delle volte; più verosimilmente per quelli della volta del salone “rosso” d’angolo tra la Via Etnea e la Via Cordaro che, con l’Allegoria della Flora, sia nell’impianto compositivo, sia nella tecnica pittorica, richiamano il dipinto centrale della volta del Teatro, raffigurante l’Apoteosi di Bellini.

Salone degli specchi:
immagine centrale della volta: al centro si muovono con grazia 7 fanciulle vestite come ninfe o dee che recano in mano ghirlande di fiori primaverili che spargono nell’aria. Al centro troneggia Venere (?) circondata da eroti (amorini). Nelle quattro scene laterali, entro cornici mistilinee dorate, sono rappresentate le stagioni: in corrispondenza della testa di Venere l’estate, alla sua sinistra l’inverno, sotto la primavera e a destra l’autunno.
Nei quattro angoli della volta sono rappresentate 4 bellezze femminili dei quattro continenti: a sinistra di Venere l’Egitto, a destra le americhe, a sinistra in basso l’oriente e a destra in basso l’Europa.

Sala delle arti:
al centro della volta, immersi nel celeste chiarore di una giornata di primavera, puttini gioiosi e amorini (uno porta in mano l’arco per scoccare le frecce) intrecciano ghirlande di fiori; ai lati del pannello centrale della volta sono rappresentate, nelle vesti di splendide fanciulle, le arti: in alto in corrispondenza del pannello centrale, la scrittura, a sinistra del pannello centrale la musica e la scultura, in basso la poesia, a destra del pannello la pittura e l’architettura.

Sala della musica:
pannello centrale con fanciulla inghirlandata, amorini che suonano e spartiti musicali; ai lati del pannello figure che si ispirano all’arte pompeiana e alle grottesche rinascimentali con personaggi che suonano vari strumenti musicali; agli angoli della volta sono rappresentate bellissime nature morte con strumenti tra i quali si riconoscono: strumenti a fiato, a corda e a percussione.

Camera da letto:
allegoria del sonno nelle vesti di una bellissima fanciulla nuda addormentata sulle nuvole con la luna piena sullo sfondo.

Il giardino
E’ un classico giardino all’italiana, della superficie di circa 700 mq, che confina a nord con la Via Cordaro e ad est con la Via Caronda.
Il fulcro attorno al quale si svolge il giardino è una fontana di forma circolare, che ospita al centro una statua in terracotta raffigurante un putto con un delfino, circondata da ciuffi di falsi papiri (Cyperus alternifolius) immersi nell’acqua. La vasca è circondata da un camminamento pavimentato con ciottoli bianchi e neri che realizzano dei disegni geometrici. Nella posizione leggibile da chi proviene dalla villa compare la scritta “M. Scuderi” che ci fa comprendere che il pavimento è stato restaurato dopo il 1941, anno in cui il palazzo fu acquistato dall’armatore Matteo Scuderi. Su una pubblicazione edita nel 1990 dalla Soprintendenza ai B.B.C.C.A.A. di Catania appare il disegno del giardino differente da quello odierno, per cui si presume che l’Armatore Matteo Scuderi modificò non solo il pavimento, ma l’intero disegno delle aiuole.
Il resto del giardino è suddiviso in tante isole di forma per lo più rettangolare e tra un’isola e l’altra si insinuano altri camminamenti, o meglio altri vialetti, anch’essi pavimenti a ciottoli bianchi e neri, grazie ai quali è possibile avvicinarsi ad ogni angolo del giardino. Le isole sono circondate da una bordura realizzata con l’impiego di una della più familiare delle piante grasse che troviamo sui balconi di Sicilia, la portulacaria afra, priva di nome italiano, ma intesa familiarmente come “ricchezza”, forse perché le piccole e numerose foglie carnose ricordano tante lenticchie.
Queste bordure sono state lavorate secondo la classica arte topiaria, che consiste nel potare alberi e arbusti al fine di dare loro una forma geometrica, diversa da quella naturalmente assunta dalla pianta, per scopi ornamentali.
All’interno delle isole troviamo varie piante, tra cui la più vistosa è un magnifico ciuffo di Strelitzia augusta, alto non meno di quattro metri, posto alle spalle della fontana rispetto alla casa. Più vicina a questa troviamo due alberi ornamentali di notevole altezza: una magnolia (Magnolia grandiflora), bella specie presente in diverse piazze cittadine, e un’araucaria (Araucaria araucana), albero proveniente dall’emisfero australe.
Oltre alla Strelitzia augusta troviamo poi un esemplare di Strelitzia reginae e alcune cycas revoluta, una pianta che viene spesso confusa con le palme, ma che appartiene ad una famiglia del tutto diversa (le Cycadaceae) e che è nota, oltre che per la sua eleganza, per il fatto di essere un vero e proprio fossile vivente, cioè una pianta molto antica che ha conservato le sue caratteristiche nel tempo. Le cycas sono originarie dell’Asia tropicale, della Polinesia, dell’Africa orientale e dell’Australia.

(Ugo Mirone, Giambattista Condorelli, Maria Teresa Di Blasi – delegazione Fai di Catania)

 

 

Palazzo Manganelli

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Interni del Palazzo Manganelli di Catania

Un palazzo prospiciente il “chiano della Sigona” venne costruito sulla Lava Larmisi nel 1400 e aveva un solo piano, quello nobile. Non aveva fregi ed apparteneva alla famiglia Tornambene. Nel 1505 Bernardo Tornambene vendette il palazzo ai baroni di Sigona la cui ultima erede, Isabella, andò sposa nel 1655 ad Alvaro Paternò.
Il terremoto del 1693 lo distrusse quasi interamente ma i muri perimetrali resistettero al sisma. L’attuale Palazzo Manganelli, che conserva le mura perimetrali del ‘400, fu costruito a partire dal 1694, su commissione di Antonio Paternò, dagli architetti Alonzo Di Benedetto e l’arco di San Benedetto) e dal suo discepolo Felice Palazzotto. Costruito come oggi si vede a meno dell’ultimo piano che fu aggiunto successivamente e a meno di un importante dettaglio.
Il livello della città sino al 1873 era quello delle chiese di San Michele Minore e di Santa Teresa. Quando fu abbassato, il palazzo Manganelli subì una lesione e il principe del tempo chiese all’ingegnere Ignazio Landolina, progettista del livellamento, di fare un preventivo per un piano di ristrutturazione. Furono così ricavate le botteghe della via San Giuliano e fu aggiunto l’ultimo piano.
Il nome del palazzo coincide con quello del predicato nobiliare della famiglia e si riferisce al principale apparecchio che si usava nei secolo passati per la filatura della seta. Il ramo in questione della famiglia Paternò gestiva una ricca attività in questo settore, con un centinaio di operai, e possedeva molti manganelli, che ispirarono il re Filippo IV, venuto in visita a Catania, ad abbinare ad essi il titolo di barone, con cui gratificare la famiglia.
Tra i personaggi più notevoli, Giuseppe Alvaro Paternò (1784 – 1838) 3° Principe di Sperlinga dei Manganelli, 4° Duca del Palazzo, 10° Barone delli Manganelli e 4° Barone del Mastronotariato dal 1831; Gentiluomo di Camera del Re delle Due Sicilie, Intendente Regio a Messina, Catania, Palermo e Abruzzo Citra donò al Comune di Catania cinque zappe di acqua di Valcorrente, che equivalevano a 24,40 litri al secondo, e fece costruire a proprie spese un acquedotto lungo sedici chilometri e oltre otto chilometri di rete interna.
Suo figlio Antonio Alvaro (1817 -1888), 4° Principe di Sperlinga dei Manganelli 1 sposò tre volte. La terza moglie, Angela Torresi, una donna bellissima per la quale Mario Rapisardi scrisse un’ode, fece venire da Firenze architetti per apportare modifiche al palazzo. Poiché non amava i mobili antichi fece sostituire tutto l’arredamento. Gli affreschi e le porte dipinti da Olivio Sozzi furono ricoperti, i saloni che prima si affacciavano sulla piazza Manganelli furono trasferiti nel lato dei giardino dove prima erano gli appartamenti privati.
Tutti i mobili dei ‘700 andarono perduti, del secolo precedente non rimase nulla anche perché i soldati garibaldini, nonostante le assicurazioni date dal generale al principe con una lettera in cui gli diceva “rispondo della vostra vita”, avevano saccheggiato il palazzo. Nell’androne, opera di Sebastiano lttar, fu posta una statua scolpita a Firenze da Valerio Pochini nel 1894, che rappresenta la storia della famiglia.
Dopo un Giuseppe Alvaro (1842 – 1916) che fece anche costruire a sue spese dallo scultore Mario Rutelli la statua di Umberto I, il re a cavallo, come lo chiamano i catanesi, e fu presidente della Croce Rossa a Catania venne Antonio Alvaro (1879 – 1937), 6° Principe di Sperlinga dei Manganelli alla cui morte il titolo di principessa di Sperlinga e Manganelli passò all’unica figlia, Angela (1902 – 1973), mentre il titolo di duca di Palazzo ritornò alla Corona. Si estinse così la linea maschile dei Paternò di Sperlinga Manganelli. Angela secondo la legge del tempo, non avrebbe potuto ereditare il titolo paterno ma, per intercessione dei principi di Piemonte, di cui il marito era gentiluomo di Corte e lei dama di palazzo, ottenne dal re l’autorizzazione a succedere nel titolo. Angela aveva sposato nel 1927 il principe Flavio Borghese, da cui ebbe tre figli, Camillo, Marcantonio e Vittoria. Alla morte dei genitori, il primogenito Camillo ha ereditato tutti i titoli ma per rispettare un desiderio della madre e del padre rinunciò in favore del fratello Marcantonio al titolo di principe di Sperlinga e Manganelli.

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Giardino del Palazzo Manganelli di Catania

Palazzo Manganelli è oggi un grande edificio settecentesco con un prospetto di quasi 38 metri sull’omonima piazza, uno di 66 metri sulla Via Antonino di San Giuliano, comprendendo il giardino pensile di cui si dirà ed un terzo sulla Via Recalcaccia.
Le due facciate principali presentano sostanziali differenze. Sulla Via di San Giuliano si aprono sette ampie luci per botteghe, realizzate dopo l’abbassamento del livello stradale, su cui insistono altrettanti piccoli balconi di un piano ammezzato. L’altezza del piano terra e dell’ammezzato corrisponde a quella del terrapieno racchiuso, da un robusto muraglione che contiene il terreno che forma il giardino pensile. Questo muraglione si svolge anche su Via S. Teresa ed in parte su Via Recalcaccia e sfrutta un segmento di quella che fu la cinta muraria cinquecentesca della città.
La medesima fascia dell’edificio è utilizzata diversamente sulla facciata prospiciente la piazza, la principale, che espone al centro un ingresso monumentale con due finestre per lato, di cui quelle inferiori di grande dimensione e monumentalità e quelle del piano ammezzato di dimensione minore ed appena contornate da semplici mostre. L’ingresso è decorato nel più puro stile barocco ed è sormontato dallo stemma della casata, costituito a destra dallo stemma dei Paternò e a sinistra da quello dei Borghese, costituito da un’aquila che sormonta un drago. Dal portone si accede, tramite un’elegante androne, opera del primo Ottocento di Sebastiano Ittar, in un cortile quadrato di circa 20 metri di lato. Nella galleria, a sinistra, su un piedistallo, la statua di Valerio Polchini, di elegante fattura. Molto elaborato il cancello in ferro battuto che consente l’accesso al cortile.
Le quattro finestre del piano terra, protette da forti grate in ferro, hanno mostre in pietra bianca di Siracusa, annerite dal tempo, sormontate da un timpano ad arco spezzato.
Oltre i piani terra e mezzanino, su entrambi i lati si colloca il piano nobile del palazzo, con cinque aperture ad ovest, e sette aperture a sud, tutte balconate singolarmente, tranne le due ad angolo, che fruiscono di un unico lungo balcone ad L a lati uguali. Anche in questo caso viene data priorità al prospetto sulla piazza, dove le aperture hanno mostre con timpani ad arco spezzato ulteriormente elaborati, mentre quelli sulla Via di San Giuliano hanno mostre con più semplici retti. Molto elaborate e tipicamente barocche le mensole di sostegno dei balconi di entrambi i lati. E’ questo piano nobile che gode della possibilità di accedere, dal lato est, al giardino pensile, collocato allo stesso livello.
Infine, solo per una parte dell’edificio, un ulteriore piano, che chiameremmo secondo, di minore altezza e ornato con semplicità, costruito, come detto, negli anni ’70 dell’Ottocento.

(Rosanna Marchese, Giambattista Condorelli – Delegazione Fai di Catania)

 

 

Palazzo del Toscano

Il Palazzo fu inizialmente costruito, nel primo settecento, su progetto dell’insigne architetto Vaccarini, ma la sua edificazione si fermò al primo piano soprastante gli ampi locali di servizio sulla strada, scanditi dagli archi in pietra bianca e nera tipici di altri monumenti del barocco catanese.
Abitato dalla Famiglia Tedeschi Bonadies baroni di Villermosa, nel 1858 fu destinato dall’ultimo discendente della casata al nipote Antonino Paternò del Toscano, che di lì a poco sarebbe divenuto primo sindaco di Catania, malgrado le precedenti affermazioni di fede borbonica.
Il marchese del Toscano, a sostegno dell’ascesa del casato nell’Italia Unita, decise di continuare la costruzione del palazzo, rimaneggiandone però l’architettura complessiva. Dopo un primo incarico al torinese Poletti, più rispettoso del primitivo impianto del Vaccarini, il marchese si affidò all’architetto napoletano Errico Alvino che realizzò un’architettura compatta e severa, ma chiaramente influenzata dall’eclettismo artistico dell’ottocento e, insieme, dal gusto per gli ambienti “a tema” proprio dei palazzi napoletani.
Il suo progetto fu poi copiato nella edificazione di un altro palazzo catanese, ma con minore maestosità.
I decori e l’arredamento della Sale di Rappresentanza, nonché i rivestimenti marmorei e gli affreschi del grandioso scalone d’onore, furono cura dell’erede primogenito Giovanbattista Paternò, sposato a una Caracciolo di Napoli e anch’egli sindaco di Catania in periodi alterni, tra cui quello coincidente con il completamento e l’inaugurazione del Teatro Massimo Bellini. Gran signore, attento sia alla tradizione siciliana dei maestri decoratori e affrescatori sia al gusto umbertino dei salotti della Capitale sia all’incipiente Liberty, completò la sua opera, con notevole mole di capitali e sacrificando due feudi, intorno al 1910.
Molte descrizioni d’ambiente del romanzo “I Vicerè” di F. De Roberto sembrano sovrapponibili alle architetture del palazzo e alle sue modalità di fruizione fino ai primi decenni del novecento. Utilizzato come location per set cinematografici come “Paolo il caldo” di Vicario tratto dal romanzo di Vitaliano Brancati, “Un bellissimo Novembre” di Mauro Bolognini tratto dal romanzo di Ercole Patti, e lo sceneggiato Rai “La Piovra”.

 

 

Palazzo Beneventano

Palazzo Beneventano, volta affrescata nell'Ottocento da Alessandro Abate.

Palazzo Beneventano, volta affrescata nell'Ottocento da Alessandro Abate.

Commissionato dalla famiglia Pavone, il palazzo fu venduto nel 1870 al barone Giuseppe Luigi Beneventano della Corte e da lui ultimato su progetto dell’ingegnere Lanzerotti. Importante elemento scenografico del lato est di piazza Stesicoro, l’edificio ha un’impostazione neoclassicheggiante che ben si accorda con il vicino Palazzo del Toscano. Decorarono gli interni alcuni tra i più importanti nomi del panorama artistico tardo ottocentesco: Alessandro Abate, Alfonso Orabona e l’illustre Giuseppe Sciuti.

 

 

Author: Luigi Marino

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